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Ermanno Olmi (1931-2018) L’infinita ma indispensabile precarietà del cinema

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Un affettuoso ricordo del maestro bergamasco, scomparso il 7 maggio a 86 anni, vincitore della Palma d’oro a Cannes con L’albero degli zoccoli (1978) e del Leone d’oro a Venezia con La leggenda del santo bevitore (1988).

L’ultima volta che l’ho visto è stato nel Duomo di Milano per la prima mondiale del suo ultimo film, il toccante documentario sul Cardinal Martini, vedete, sono uno di voi. Alla fine della proiezione mi sono avvicinato, assieme a tanti altri, per salutarlo. Lui mi ha sorriso e mi ha abbracciato, con quel modo unico che aveva di abbracciare. “Come va, Ermanno?”, gli ho chiesto, con una di quelle banali frasi di circostanza che ti penti di aver pronunciato mentre ancora ti stanno uscendo di bocca. E lui, con un sorriso fatto di rassegnata sopportazione ma anche di lucida autoironia, mi ha risposto: “Dal collo in su va benissimo. Dal collo in giù non funziona più nulla…”. Non l’avrei più rivisto. Ma ricordo ancora quell’abbraccio. Quel calore. Quella ritrosia intrisa di tenerezza e di umanità. Bergamasco come lui, mi sono sempre sentito legato a Olmi da una sorta di sotterranea complicità. Anche lui la sentiva. “Tu sei uno dei pochi critici – mi ha detto una volta nella sua casa di Asiago – che può capire L’albero degli zoccoli senza bisogno di sottotitoli…”.  Non so se sia proprio così. So però che conosco quella gente e quella cultura meglio di tanti altri. E proprio per questo sento con più violenza il vuoto che la morte di Ermanno ci ha lasciato. “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”, dice una battuta memorabile di uno dei suoi film più belli, Centochiodi. Ermanno lo pensava davvero. Sapeva e sentiva che l’amicizia è uno dei valori irrinunciabili della vita. E lui sapeva essere un amico gentile, premuroso, affettuoso. In un mondo devastato dal rancore, dagli odiatori di professione, dai killer del web, Olmi ha incarnato un’idea di umanità solida e antica, fatta di promesse e di radici, di lealtà e di gentilezza. Non era un teologo. Olmi. Neppure un predicatore, un missionario, un esegeta. Era un artista, un narratore. Un poeta che si esprimeva con la macchina da presa. Come ogni artista, non poteva comunicare che per parabole: cioè per storie che trasformano le parole in atti, e le incarnano in volti, corpi, sguardi, gesti, azioni. Ecco allora i volti straordinari dei suoi vecchi contadini di pianura e di fiume, che parlano nel loro antico e solenne dialetto padano, e che in Centochiodi ballano dolcemente nella balera improvvisata sul fiume, e osservano da lontano il battello che passa ogni sera, con a bordo altre coppie che ballano sulle note struggenti di Non ti scordar di me, riarrangiate da Paolo Fresu. È un cinema che sa di pane e di vino, e di zolle, e di terra umida e di acqua di fiume, quello di Ermanno. Ma senza nessuna nostalgia per la civiltà contadina che sembra sul punto di sparire: Olmi non era nostalgico ne L’albero degli zoccoli, e non lo è mai nei suoi film successivi. Caso mai è lirico ed elegiaco. A tratti parabolico. Spesso scandaloso. Come quando fa dire a un suo personaggio che “le religioni non hanno mai salvato il mondo”, e che il giorno del Giudizio sarà Dio che “dovrà rendere conto delle sofferenze che ha provocato agli uomini”. Per Olmi conta la Fede, non la religione. Le religioni possono essere – e a volte nella Storia sono state – strumenti di potere: quanti eserciti hanno impugnato le armi – ricorda Olmi – dicendo di farlo in nome e per conto di Dio?

I suoi film si dibattono sempre fra due tentazioni contrapposte ma  complementari: da un lato il suo è un cinema che si dà come epifania di un inizio, come annuncio di un esordio (la nascita di Gesù in Cammina Cammina; la vocazione e la formazione di un pontefice in E venne un uomo; la Bildung di un impiegato ne Il posto e quella di un adolescente in Lunga vita alla signora); dall’altro, con analogo nitore, è cinema che si costruisce sulla fenomenologia di ciò che si estingue, sulla messinscena di ciò che sta per scomparire (la fine di un barbone in La leggenda del santo bevitore; la fine della civiltà contadina lombarda in L’albero degli zoccoli; la fine di un amore ne I fidanzati). Talora, le due tentazioni dello sguardo di Olmi si sovrappongono come in una dissolvenza incrociata e producono film in cui l’estinzione di qualcosa si accompagna (e confligge, e fa attrito) con la formazione di qualcos’altro (come accade, ad esempio, nella dialettica che contrappone i protagonisti di Il tempo si è fermato, I recuperanti o La circostanza). C’è sempre un attimo in cui il tempo si ferma, nel cinema di Olmi. Ed è proprio a partire da quel frammento di tempo congelato che Olmi lavora – attraverso processi di destrutturazione e ricomposizione non lineare del passato e del futuro – alla produzione di quel senso della precarietà – centrale in un capolavoro come Il mestiere delle armi – che è uno dei tratti connotativi più specifici e preziosi di tutto il suo cinema.

Assieme alla consapevolezza sempre ribadita che i film sono come i libri in Centochiodi: o si fanno carne (e vita e sangue e corpo e respiro) o non servono a nulla. I suoi film si sono sempre “incarnati” per noi.

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Grace Kelly era così?

grace-kelly-Grimaldi“La mamma non era così!”, tuonano indignati Alberto, Stephanie e Caroline di Monaco, sconfessando il film con Nicole Kidman che evoca la figura di Grace Kelly e che è stato selezionato per aprire il festival di Cannes. “Alma Reville era diversa da come la si vede nel film!”, ringhia qualcun altro dopo aver visto il film che Sacha Gervasi ha dedicato a Hitchcock e al rapporto che il mago del brivido aveva con la moglie nel periodo della lavorazione di Psycho. Ormai è quasi scontato: ogni volta che un film tocca qualcosa che ha a che fare con la vita, o mette in scena qualche personaggio realmente esistito, ecco che qualcuno alza la mano per dire che la vita (o quel dato personaggio) non sono come li mostra il film. In fondo, la bellezza del cinema sta anche qui: assomiglia alla vita, ma non è la vita, per fortuna. Eppure. Eppure, c’è chi vorrebbe che il cinema si sottomettesse docilmente alla dittatura del verosimile. A quello che egli ritiene sia il verosimile. O il “vero”. Mi è capitato di discutere animatamente con spettatori che di fronte al film di Paolo Franchi E la chiamano estate, si indignavano (e stroncavano…) dicendo irritati: “Ma non è così che funziona il sesso!”. Beati loro che hanno capito con tanta certezza come funziona… Ma ho discusso anche con una spettatrice che di fronte a La migliore offerta di Tornatore brontolava: “Non è verosimile che una ragazza giovane e bella come quella del film si invaghisca di un vecchio come il personaggio di Geoffrey Rush!!!”. A parte il fatto che la fanciulla in questione non si invaghisce, ma simula di invaghirsi, anche in questo caso c’è il rifiuto di un cinema che non si conforma a quella che si presume sia la realtà. Ho scritto “si presume” non a caso: io invidio che ha la certezza di aver capito una volta per tutte che cos’è la realtà. Chi ha la presunzione di credere che il proprio punto di vista sul mondo (e sul sesso, su Grace Kelly, sulla moglie di Hitchcock, su quello che volete voi…) sia l’unico punto di vista possibile. L’unico reale. Il cinema – secondo me – non è mai la realtà. Non è lo specchio del mondo. Non lo riflette. Eppure noi pretendiamo da lui che assomigli a ciò che noi pensiamo sia il mondo. Pretesa impossibile. Le immagini non sono mai la realtà. Vi siete mai chiesti perché quando mostrate la vostra carta d’identità a qualcuno, nove volte su dieci vi sentite in dovere di aggiungere: “Non guardare la foto, sono venuto male!”? Non è che sei venuto male. È che non ci riconosciamo mai del tutto nelle immagini che ci rappresentano. Mai quanto vorremmo. Le immagini ci attizzano e poi ci frustrano, ci promettono e poi ci deludono. Come dire: non ci bastano mai. Non ne abbiamo mai abbastanza. Forse è per questo che continuiamo ad andare al cinema. Perché sappiamo che Grace Kelly non era così, ma che in fondo era anche così.