Archivi del mese: luglio 2014

“Io sono una forza del passato”

pasoliniTesto introduttivo alla mostra  ”L’universo di Pier Paolo Pasolini”, visibile fino a novembre al Castello Carlo V di Lecce. 

 

Volti sdentati, tratti spigolosi, devastanti piorree.

Nell’Italia dei primi anni ’60 – quella del boom economico e di Carosello,

del dentifricio obbligatorio e del deodorante per tutti –

Pier Paolo Pasolini porta sul grande schermo del cinema

una fisiognomica differente.

Da dove vengono i volti di Accattone, di Mamma Roma, di La ricotta?

Dal sottoproletariato avido di vita

che popola le infinite periferie dell’Urbe?

Anche, certo. Sono i volti dei “ragazzi di vita”.

Ma prima ancora quei volti austeri, sorridenti e irregolari vengono dal passato.

Vengono dalle Chiese, dagli affreschi, dai ruderi, dalle pale d’altare

della grande tradizione pittorica italiana.

Vengono da Giotto e da Masaccio,

e fanno irrompere nella forzata omologazione della modernità

il fantasma mai definitivamente rimosso

della differenza e dall’identità.

Fra tutti i Maestri del cinema italiano

Pasolini è senz’altro il più “pittorico”.

Il più capace di generare cortocircuiti visivi ed emozionali

fra l’inevitabile immobilità della pittura

e la congenita mobilità del cinema.

Fra stasi e movimento.

Fra passato e presente.

Fra bianco&nero e colore.

Fra allora e ora.

Fra là e qui.

Il videomontaggio presentato in questa mostra

gioca su questo cortocircuito.

E scivola fra dissolvenze e stacchi netti

in un universo visivo

(ma anche concettuale, filosofico, estetico, politico e sociale)

che fa del cinema il terminale estremo

di un percorso che viene da lontano,

e che solo riscoprendo quelle radici antiche

riesce a dirci qualcosa di quel che siamo

e di quello che stiamo diventando,

O, forse, anche di quello che siamo già diventati.

Tra Godard e il fondoschiena

Testo pubblicato sul Catalogo della Mostra dedicata a Tinto Brass dalla Milanesiana (Milano, 28 giugno-10 luglio 201)

 

In un piccolo paese del Veneto un giorno all’improvviso atterra un disco volante. Ma la sua apparizione è tanto sorprendente e perturbante che la maggior parte della popolazione fa finta di non vederlo, e quei pochi che sostengono di averlo visto vengono rinchiusi in manicomio. La paradossale vicenda messa in scena in Il disco volante (1964) si offre come involontaria ma efficace metafora di come la critica (ma, più in generale, tutto l’establishment del cinema italiano) ha sempre trattato il cinema di Tinto Brass: facendo finta che non ci fosse. O sanzionando come “dementi” quei pochi che osavano apprezzarlo, magari arrivando anche a lodare pubblicamente la qualità e l’originalità dei suoi film.Troppo “diverso”, il cinema di Brass, per piacere ai custodi del canone e ai gendarmi del gusto. Eppure, per nostra fortuna, quel cinema sta lì: quasi come uno sberleffo o uno scaracchio rivolto a un cinema e a una cultura che da più di 70 anni sono soffocati dalla dittatura del verosimile, dal culto cieco del naturalismo, e soprattutto dall’idea che il cinema debba rispecchiare la vita, cercando di riprodurre con la massima fedeltà possibile la tristezza dei nostri tinelli, delle nostre camere con vista e dei nostri cucinini con mobili in formica. Brass non rispecchia, crea. Per questo è così indigesto. Così malvisto. Così osteggiato, snobbato, dileggiato. Eppure, chi avesse la pazienza di rivedere oggi, senza pregiudizi e senza paraocchi, anche solo i film realizzati da Brass negli anni Sessanta, scoprirebbe alcune verità incontrovertibili: si renderebbe conto, ad esempio, che nessun altro cineasta italiano ha raccolto e sviluppato la lezione della nouvelle vague francese come ha fatto Brass. Altro che Bertolucci: Prima della rivoluzione e Partner saranno anche impregnati di umori parigini, e di procedimenti di messinscena di derivazione godardiana, ma mancano di alcuni aspetti costitutivi del cinema nouvelle vague, a cominciare dal registro ludico/giocoso e – soprattutto – dall’amore per i generi e dal gusto di giocare con i loro topoi e i loro stilemi. Brass invece lo fa. Si prenda un film come Col cuore in gola (1967): fin dal titolo, è quanto di più vicino – nel cinema italiano – a A’ bout de souffle diJean-Luc Godard. Se Godard si era ispirato alla cultura del polar francese, Brass prende le mosse dal giallo Il sepolcro di carta di Sergio Donati e lo mette in scena con la consulenza grafica (e sulla base di uno storyboard) di Guido Crepax. Il risultato è stupefacente: Brass gioca con la cultura pop (cioè con il fumetto, la pubblicità, la grafica, il design, la psichedelia, la cultura underground, la segnaletica urbana…) come nessun altro cineasta italiano ha mai fatto, in un procedimento di messinscena che sperimenta spericolate ibridazioni fra alto e basso molto prima che lo facesse il cosiddetto postmodern. I riferimenti “alti” si sprecano (comprese alcune citazioni testuali di Jules e Jim, di Killer’s Kiss, dello stesso A’ bout de souffle, oltre a un manifesto di Blow-up di Antonioni all’ingresso di un cinema, insistentemente inquadrato), ma mescolati con poster di Batman e gigantografie di Clark Gable o del “godardiano” Humphrey Bogart. Le immagini alternano colori pop acidi e squillanti (a cominciare dallo spolverino rosso brillante di Eva Aulin) a un bianco e nero molto optical, alcune onomatopee fumettistiche (swing in rosso, slam in nero…) vengono usate per visualizzare il dolore provocato da pugni o cazzotti, il montaggio frenetico assembla tutti i procedimenti (zoom, dettagli, mascherini, e così via…) che esibiscono il funzionamento del dispositivo cinematografico. Ma poi Brass utilizza l’esile trama “gialla” che ha per protagonisti Jean Louis Trintignant e Eva Aulin per portare a fondo la sua riflessione sulle forme della rappresentazione: nell’unica occasione in cui i due vanno al cinema vedono sullo schermo non un film di finzione ma immagini in bianco e nero di cinegiornali che riferiscono dei conflitti in atto sullo scacchiere mondiale, da Israele al Vietnam, Poi, quando escono dal cinema, i due si trovano ad attraversare (a colori) la stessa manifestazione di protesta a Trafalgar Square che proco prima avevano visto – in bianco e nero – sullo schermo del cinema. Quasi a suggerire che nella società dello spettacolo scena della finzione e scena della realtà si sovrappongono senza soluzione di continuità, così come si mescolano presente e passato, ciò che è già accaduto e ciò che sta ancora accadendo. Da Chi lavora è perduto (1963) a Yankee (1966), da Nerosubianco (1968) a L’urlo (1968), tutti i film di Brass degli anni Sessanta presentano caratteristiche analoghe e colpiscono ancora – a mezzo secolo di distanza – per l’eleganza visiva, la modernità compositiva, la libertà concettuale. Anarchico e visionario come nessun altro cineasta della sua generazione, Brass se ne sta lontano dalle lobbies e dai clan, dalle famiglie e dalle tribù, disdegna il cinema politicamente corretto, non teme di essere scorretto scomodo acido eretico. Soprattutto, commette quello che per i chierici del cinema italiano è il peccato mortale: applica il sublime dello stile non a temi socialmente, politicamente culturalmente rilevanti, ma a un tema “basso” come le voglie del corpo. Quando poi, dagli anni ‘70 in qua, il suo sguardo si sposterà ancora più in basso, gli altri lo condanneranno al manicomio dell’oblio. Colpevole –questa volta – di aver portatop il sublime laddove nessun moralista potrà mai accettare di riconoscerlo: all’altezza esatta del buso del culo