Negli ultimi mesi del 2013 sono stato fermato per strada o contattato via email da decine e decine di spettatori che mi hanno apostrofato più o meno così: “Siamo andati a vedere Sacro Gra spinti dal ‘certificato di garanzia’ del Leone d’oro a Venezia. Bella bufala. Non andremo più a vedere un film italiano”. Non pretendo che queste reazioni abbiano un valore statistico probatorio, ma che siano un sintomo mi sembra indubbio: quanto meno, un sintomo di disagio, di diffidenza, di incomunicabilità fra l’establishment del cinema e il pubblico che continua ad andare a vedere i film. Di fronte a simili reazioni, è quasi inevitabile (e per certi versi perfino doveroso) porsi una domanda (ed è giusto porsela ora, a freddo, non per volontà polemica, ma con l’intento di aprire una discussione franca e costruttiva): siamo sicuri che il Leone d’oro al film di Rosi abbia giovato al cinema italiano?
Io – lo confesso – sono uscito dalla proiezione profondamente deluso. Quando lessi del progetto di Rosi, ricordo che mi ero illuso (avevo sognato?) di poter vedere un film che provasse a raccontare l’orrore della normalità. Cioè il delirio barocco di quelle centinaia di migliaia di persone che sono costrette ogni giorno a passare ore e ore della propria vita bloccate negli ingorghi del Grande Raccordo Anulare, ognuno chiuso nella propria automobile, tutti intenti a vivere nel tempo morto della “coda”. Avevo sognato un film sulla feroce normalità di questo tempo fatto di nulla e di stress. Invece no. Ancora una volta un film italiano ha snobbato la normalità e ha preferito il margine, o l’anomalia: ha inseguito cioè il bizzarro, il pittoresco, il freak, secondo una linea di predilezione per il marginale che ha le sue radici molto lontano, forse perfino nel cuore non dell’ideologia ma della pratica del cinema neorealista. Scelta legittima, per carità. A me i personaggi da circo messi in scena da Rosi lasciano del tutto indifferente (non li amo e non li odio, non mi stanno né simpatici né antipatici, mi sono indifferenti), ma è probabile che sia un limite mio. Quel che trovo invece sia inaccettabile – quasi quanto il carrello di Kapò stigmatizzato a suo tempo da Jacques Rivette – è il fatto di spacciare per “vero” ciò che è spudoratamente “finto” e “artefatto”. Se passi tre anni con quelle persone, è inevitabile che alla fine li trasformi in personaggi: sullo schermo non sono più se stessi, ma ciò che tu hai voluto che diventassero, o ciò che tu li hai guidati a diventare. Come i concorrenti del Grande Fratello televisivo, anche i personaggi di Rosi vivono davanti a una telecamera sapendo di essere ripresi. Cioè recitano se stessi. Di nuovo: operazione legittima. Ma che questa alterazione del vissuto, questa simulazione di verità venga premiata dalla Giuria di Venezia come la punta avanzata del documentario italiano (e del cinema italiano tout court…) in me produce più che altro disagio, sconforto e una sorta di ontologica e deprimente perplessità.
C’è una sola parola per definire il film Leone D’Oro a Venezia: paraculo. Piace a 360 perché il regista ci si è messo di buzzo buono per piacere a tutti..e difatti ci riesce. E’ piaciuto pure alla giuria del Festival. Piace all’intellettuale de la gauche perché ci sono tutti gli emarginati, le battone, gli emigrati, i trans, i malati di mente, i vecchi, i poracci,..e si sà lui, l’intellettuale organico nell’umanità disgraziata ci sguazza. Piace all’impiegato del ministero del Pigneto che pensa “.. me sarà pure arrivata la cartella della multa di Equitalia..ma anvedi questi come stanno”. Piace ai cattolici perché c’è pure il popolo che prega per l’apparizione della Madonna. Piace all’uomo di scienza perché se vede la crociata dell’entomologo contro il “punteruolo rosso” divoratore di palme. Insomma è piaciuto a tutti meno che a me…perchè troppa piacioneria stroppia. Voto 5 (ma solo perché è omonimo di Rosi Francesco)
Codesto intervento mi trova assolutamente in accordo.
In linea generale il blog http://www.giannicanova.it è scrittoveramente
bene, mi piace. Complimenti, continuate così!
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