Nelle nostre scuole non lo si studia, neanche al Liceo Classico. Eppure, Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916) di Luigi Pirandello è uno dei primi romanzi europei ambientati nel mondo pionieristico del cinema muto. Intuisce con incredibile lungimiranza la nascita della società dello spettacolo. Ed è ampiamente citato da Walter Benjamin – in quel saggio capitale che è L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – come testo imprescindibile per capire lo spaesamento dell’attore (Benjamin parla di esilio) nel passaggio dal palcoscenico teatrale al set cinematografico. Quest’anno ho deciso di dedicare parte del mio corso universitario sugli immaginari dell’era digitale proprio a Serafino Gubbio. Nel romanzo, Serafino soffre la tipica scissione pirandelliana tra forma e vita: intelligente e sensibile, ma percepito dagli altri unicamente come un operatore “meccanico”, decide risolvere il dissidio fra la sua interiorità (e sensibilità…) e il modo in cui lo vedono gli altri accettando di essere solo “una mano che gira la manovella” della macchina da presa. Per compensare questa sorta di autoalienazione Serafino però scrive un diario (i Quaderni, appunto) in cui esprime se stesso e racconta il mondo dal suo particolarissimo punto di vista.
Nel mio corso ho creato un blog in cui immagino che Serafino Gubbio sia il nickname di un trentenne dei giorni nostri, laureato Dams, cinefilo raffinato, che per campare fa l’operatore in una Tv privata lombarda occupandosi prevalentemente dei servizi di nera. Di fatto, è un operatore specializzato nel realizzare le immagini mediatiche dei più efferati delitti. Visto che all’università sognava di essere il Fassbinder italiano, il mondo della Tv non piace più di tanto, e anche il suo lavoro gli fa abbastanza schifo. Lo fa per motivi alimentari. E come il personaggio di Pirandello scriveva i suoi Quaderni, il mio Serafino si sfoga nel blog (www.serafinogubbio.it) in cui riferisce dei delitti di cui è testimone, ma discute anche di immagini, di cinema e di media. Gli studenti del corso erano e sono chiamati a costruirsi tutti un’identità fittizia assumendo come pseudonimo il nome di un personaggio pirandelliano. Con questa finta identità – a me ignota, almeno fino al momento dell’esame – avrebbero dovuto aprire un profilo su Facebook e intervenire sul blog creando un personaggio coerente con la sua matrice pirandelliana e capace di inserirsi nella narrazione ipertestuale che avremmo cercato collettivamente di creare.
Il blog è partito, ma subito qualcosa si è inceppato. Facebook ha bloccato gli account pirandelliani. Ha cancellato Varia Nestoroff e Adriano Meis, Ciaula il caruso e Ducella Mirelli. Anche la pagina Facebook del mio Serafino Gubbio è stata oscurata. Ogni volta che provavo a riattivarla, arrivavano messaggi molto secchi che ricordavano la policy del social network: niente identità fittizie. Le nostre venivano percepite come tali e oscurate. Una, due, tre, quattro volte. Fino alla disabilitazione definitiva. Algoritmi implacabili e cecchini micidiali. Ora: la policy di Facebook è nota e non si discute. E però – lo sanno tutti – Facebook ribolle di persone che si sono autoattribuite un’identità diversa da quella reale. Che non sono su Facebook con il loro vero nome. Che alterano la propria identità a proprio piacere. Il successo di Facebook – si sa – deriva in gran parte anche da questo: ti concede di essere non quello che sei ma quello che vorresti essere. Di pubblicare qualsiasi immagine per rappresentarti al meglio. Di fare della tua identità un progetto invece che uno status, o un lascito ereditario. Su Facebook ci sono tanti altri Serafino Gubbio, e altri utenti con avatar pirandelliani. Perché proprio i nostri sono stati oscurati? Forse che Facebook consente il falso all’utente singolo ma non a una comunità?
Quale che sia la risposta, trovo curioso che il social network che ha consentito a tutti di sanare il dissidio fra essere e apparire oscuri con i suoi algoritmi proprio un gioco di ruolo narrativo ispirato dallo (e allo) scrittore – premio Nobel – che meglio di chiunque altro ha narrato e descritto l’inevitabile condanna ad essere sempre e solo quello che gli altri vedono in noi.